“La mia visione è sconfinata, multidimensionale. Io abbraccio tutte le vie, ogni sorta di strumento rinascere 
Non sono un flauto che suona un assolo, sono un’intera orchestra. Io accetto ogni tradizione così com’è, senza interferire. 
Questo non è mai stato fatto in passato, e potrebbe non essere più fatto per secoli a venire, perché una simile visione onnicomprensiva crea troppa confusione. Stando con me, non potrete mai avere certezze.
Più starete con me, sempre più il terreno sotto i vostri piedi scomparirà. Più starete con me, più la vostra mente vi verrà sottratta – e con lei, ogni certezza. Certo, avrete trasparenza, ma nessuna certezza.

Non potrete trovare una persona più incoerente di me, perché devo dare spazio a un’infinità di punti di vista, estremamente contraddittori fra loro. Non esiste nulla in comune tra Bahauddin e Atisha, tra Rinzai e Maometto, tra Mahavira e Cristo, eppure tutti costoro si sono incontrati in me e sono tutti uno, dentro di me. E io non ho scelto, non ho interferito: li ho semplicemente assimilati tutti. Ho una sola coerenza: l’estrema incoerenza.

Sono coerentemente incoerente, questa è la mia sola consistenza. E ho una libertà infinita: un uomo coerente non può averla. Io posso giocare, scherzare, posso divertirmi a sconvolgere i vostri ego, a distruggere tutte le vostre strutture. Non sono affatto serio per ciò che riguarda queste cose. Oso giocare, tentare prima una via, poi l’altra. Le mie affermazioni sono simili ad attori sul palcoscenico: lasciamo che si contraddicano; non sono lì per dire la verità, ma per provocarla, per stimolarla, per scoprirla…
Ecco perché non posso definire me stesso: la definizione di oggi potrebbe non adattarsi più domani. Non mi posso definire, perché sarebbe come definire una nuvola o un oceano o un albero in crescita o un bambino. Io cambio continuamente, perché il mutamento è l’anima stessa della vita. Fatta eccezione per il cambiamento, nulla è eterno.
Il mio unico impegno, la mia sola dedizione è il cambiamento. Il cambiamento è il mio Dio, perché è l’unico fenomeno che non muta nella vita. Per questo lo definisco Dio. Tutto il resto cambia: la vita cambia, la morte cambia – solo il mutamento permane. Io sono un devoto del mutamento, ne sono innamorato. No, non posso definirmi una volta per tutte. Devo definirmi a ogni istante della mia vita; e nessuno può dire cosa porterà l’attimo successivo.

Non mi potete etichettare. Non mi potete definire, non sono un oggetto. Sono un fiume, una nuvola che cambia continuamente la sua forma. La mia idea di consistenza è radicata in questo continuo mutare, in questa danza dinamica che ha nome vita… Quando me ne sarò andato, vi lascerò in una totale confusione – nessuno potrà mai organizzare le mie parole secondo una logica, nessuno potrà mai stabilire cos’abbia detto veramente. Nessuno riuscirà a ridurmi a un dogma…
Non vi farò il favore di darvi un dogma. No, continuerò a contraddirmi, giorno dopo giorno, a ogni istante. Pian piano, capirete che non ha senso aggrapparvi alle mie idee. E in quel preciso istante diventerete consapevoli che non occorre aggrapparsi all’idea di nessuno, non importa chi l’abbia espressa – io, Buddha, Gesù, o chiunque altro. Tutte le idee devono essere abbandonate.
Essere con me significa vivere in un flusso costante, in un continuo mutamento. Coloro che non hanno il coraggio di farlo, prima o poi abbandoneranno il viaggio nel quale vi sto portando.”
(da: The Secret of Secrets)

Parlare di Osho significa confrontarsi con questa verità: ciò che egli è stato, non è ciò che egli è oggi. Ciò che era, non è più… spesso lo è stato solo per necessità contingente, in quanto stratagemma per sconvolgere la mente di qualcuno, che proprio di quell’impatto aveva bisogno. Ciò che egli appare oggi, non è ciò che sembrava a quanti gli si avvicinavano un tempo, né sarà la motivazione di quanti a lui si avvicineranno domani, o domani l’altro. Per capirlo è sufficiente osservare alcuni fattori. L’estrema attualità di cui sta godendo, infatti, mal si giustifica con le mille accuse, i biasimi e le condanne che hanno accompagnato la sua vita: come potrebbero essere la stessa persona quel Bhagwan Shree Rajneesh che nel 1978 oltre 300 articoli
nella sola India seppellivano sotto le accuse più infamanti, e l’Osho di oggi, osannato in patria nel 1994 come “uno dei dieci uomini che hanno fatto l’India”?
Come potrebbe spiegarsi l’eco del suo nome, riflessa in oltre 400 articoli acclamanti “uno dei figli più grandi” del subcontinente indiano? Può essere la stessa figura, o persona, questo Osho che in quello stesso 1994 vedeva la propria Opera Omnia ammessa nella Biblioteca Nazionale del Parlamento Indiano, un onore concesso fino a quel momento solo a Gandhi? In cosa assomiglia, e cosa giustifica allora la decisione del Ministro della Cultura, nel 1974, di impedire a qualsiasi troupe televisiva di andare a filmare ciò che accadeva nell’Ashram di Pune, in quanto “non rappresentativo della civiltà e della cultura indiana”? Oppure la scelta del Ministro degli Interni, nel 1986, di impedire l’ingresso in India a chiunque avesse come meta l’Ashram di Rajneesh? Quest’uomo è stato uno dei più pericolosi criminali, come hanno tentato di dire gli Stati Uniti nel 1985, oppure “uno dei Mille Uomini che hanno fatto il XX Secolo” come hanno detto The Sunday Times, Panorama, India Today nel 1991?

Le sue parole sono “il più grande danno alle coscienze” al punto da veder insorgere contro di lui tutto il mondo cosiddetto libero, che nel 1986 gli impedì in massa di stabilirsi, o anche solo di sorvolare il suo territorio; oppure uno degli autori più letti, con due milioni di copie vendute nel 1996, in 60 lingue?
Lui stesso ha creato e smantellato giochi e spettacoli fantasmagorici, non ultimo la grande rappresentazione che vedeva da un lato lui, il Maestro e dall’altro i suoi discepoli: via via che le persone coinvolte maturavano, crescevano e si rendevano conto dell’inutilità di certe dinamiche, interi mondi, rappresentazioni incredibilmente complesse, scomparivano… non appena le persone coinvolte comprendevano che era possibile vivere anche senza quelle maschere, Osho immediatamente cancellava ogni cosa, permettendo alla consapevolezza di vuoto e silenzio, affiorata proprio grazie alle incredibili rappresentazioni di realtà messe in scena, di sedimentare e di affermarsi, spegnendo tutte le luci su quel palcoscenico. Né mai si è voltato indietro, mai una volta ha rimpianto qualcosa o qualcuno dei tanti che, insofferenti a quella rivoluzione permanente della consapevolezza, lo lasciavano, spesso con rancore e astio.

Sicuramente, tutti coloro che a Osho si sono avvicinati, una maschera la indossavano, e ne erano fortemente condizionati e saldamente identificati… ecco perché lui si è dato un gran da fare per creare scenografie e spettacoli: era il solo modo per mettere a nudo la follia che ogni identificazione comporta; era il solo modo per aiutare a ritrovare se stessi, per far capire che ogni maschera ha sì un’utilità, ma non potrà mai supplire alla realtà e alla consapevolezza del proprio vero volto… eppure, malgrado questa sua disponibilità a giocare, per molti l’impatto è stato difficile – per tantissimi impossibile – e per tutti è stato doloroso: ha significato togliersi di dosso una seconda pelle, che pur rendendo la vita qualcosa di tangibilmente falso, appariva come una protezione indispensabile, se non addirittura naturale: nessuno vive con la carne viva a contatto con la vita!

Una cosa è ovvia: ciascuno ha visto Osho con i propri occhi, in base a ciò che egli stesso era, io per primo; e lui lo ha fatto presente più di una volta: “quanti parlano di me, dicono molto su se stessi e sui loro limiti, sui propri desideri e sui propri pregiudizi, ben poco purtroppo dicono su di me e su ciò che io sono.” E in verità, i tanti detrattori spesso hanno poi cambiato opinione; come pure è accaduto che persone un tempo sensibili alla sua visione, quando questa li ha punti nel vivo – richiedendo una presa di responsabilità sul proprio
sonno esistenziale – hanno preferito denigrare lui, quasi volessero distruggere lo specchio che li aveva
messi a nudo.

E di uno specchio si può a ragione parlare: “Certo, io sono un semplice specchio. Venendo da me, vedrai ciò che sei tu, con tutti i tuoi conflitti, i tuoi incubi, le tue schizofrenie, ma puoi anche vedere qual è la causa di tutte quelle angosce, dove ha origine la tua schizofrenia. E questa è la mia utilità: vedendo, le cose si semplificano… inoltre, mi sembra ovvio che nessuno potrà mai lasciar cadere la propria essenza naturale; ragion per cui, in quello specchiarsi si potrà scegliere di ristabilire l’armonia naturale originaria.”
Parlare oggi di Osho, a mio avviso, dovrebbe avere un’altra prospettiva, un altro scopo, rispetto ad una semplice carrellata di fatti e di avvenimenti “passati”, ormai sbiaditi nel tempo. La domanda da fare, e da farsi, è: Osho, in quanto specchio, in quanto percorso esistenziale, funziona ancora? La sua visione ha ancora un’utilità? E quale? Per aiutare a mettere a fuoco questa ipotesi, per risolvere l’enigma che egli era e rimane, ho preferito parlare di lui tratteggiando il percorso esistenziale che con lui, grazie a lui, ho compiuto, e sto compiendo, aprendomi passo dopo passo a una dimensione sempre più ampia, che mai avrei immaginato la
vita potesse essere. Certo, col senno di poi, posso dire che oggi vedo un’evidenza: la vita è un fiume maestoso che scorre impetuoso verso l’oceano dell’esistenza, e come tale lo vivo e mi vivo in esso. Nulla è mai fissato
per sempre, nulla è mai conclusivo. Il movimento e il mutamento sono l’unica sostanza reale di questo
viaggio la cui rotta è l’infinito.
Ma quando incontrai Osho per la prima volta?
E quanti anche oggi hanno bisogno di qualcuno che venda acqua di fianco a quel fiume?

“Certo, io faccio solo questo: vendo acqua di fianco al fiume. Il Maestro Sogaku Harada stava morendo,
all’età di ottantun anni. Al suo funerale fu appesa una calligrafia tracciata da lui stesso:
Per quarant’anni non ho fatto altro che vendere acqua di fianco a un fiume. Ho, ho!
Le mie fatiche sono state assolutamente prive di merito alcuno. Solo un Maestro Zen può dire una cosa simile. Innanzitutto dice: non ho fatto altro che vendere acqua di fianco a un fiume – cosa assolutamente
inutile. Il fiume scorre: puoi semplicemente tuffarti e bere a volontà. Ma le persone sono sciocche, hanno bisogno che qualcuno venda acqua, perfino di fianco al fiume!
In secondo luogo dice: ho, ho! Le mie fatiche sono state assolutamente prive di merito alcuno. È un’affermazione grandiosa. I Maestri Zen affermano: se fai del bene, è del tutto inutile. Perché di fondo tutto è bene – come puoi migliorare quel bene? Se rendi illuminate le persone, a cosa serve?
Già lo erano – non stai facendo nulla di nuovo!
Ho, ho! Le mie fatiche sono state assolutamente prive di merito alcuno. È assolutamente ridicolo che io cerchi di illuminarvi ogni giorno. E voi siete testardi… e non vi illuminate. E io continuo a vendere acqua di
fianco al fiume… e voi pagate per averla! E non guardate mai il fiume, che continua a scorrere di fianco a me. È sempre esistito… prima ancora che voi aveste sete, il fiume esisteva. Prima del desiderio, l’appagamento…
Eppure… io non faccio altro che questo: vendere acqua di fianco a un fiume!”
(da: Zen: the Path of Paradox)

Autore: Viheda
Fonte: www.oshoba.it

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