Il matematico John Forbes Nash, premio Nobel per l’economia nel 1994, è noto in sede scientifica per aver perfezionato la “teoria dei giochi” inserendo in essa il principio che da lui prende il nome. La sua vicenda è giunta al grande pubblico grazie al film Beautiful Mind, un ottimo punto di partenza per una riflessione sul ruolo del tempo nell’esperienza umana. La visione del film con gli studenti permette una serie di importanti riflessioni sulle proprie modalità conoscitive e comunicazionali. Ma non solo per gli studenti: anche per i loro docenti, in particolare per la loro percezione ai processi di crescita e di apprendimento degli studenti.

Il tempo è una variabile ininfluente, uno dei tanti elementi del mondo in cui siamo immersi, o qualcosa di più? C’è un modo razionale di utilizzarlo? In che rapporto sta quello che siamo con il tempo che adoperiamo?

John Nash sostanzialmente ignora il tempo, o addirittura lo vede come un fastidio, un inquinamento della logica matematica. Il film comincia con l’ammissione di Nash all’università, e già frequentare le lezioni gli appare inutile. La sua percezione delle questioni matematiche è così acuta che non ha bisogno di seguire la scansione della didattica accademica, con i connessi riti quotidiani, settimanali, semestrali. Ma è soprattutto nei rapporti umani che emerge la singolare concezione del tempo elaborata dal giovane Nash. Nell’approccio con le ragazze è piuttosto perentorio: poiché alla fine dei vari riti ci si attende che i due facciano sesso, la sua franca proposta è di saltare i preliminari e passare senza indugi alle conclusioni. La reazione dell’interlocutrice è ogni volta piuttosto seccata: lo spettatore ride e la scena prosegue. Ma potremmo chiederci perché ridiamo. Forse Nash ha mostrato contemporaneamente ingenuità e cinismo: è ingenuo perché non ha capito come va il mondo, la necessità di fingere suggerita dalle convenzioni sociali, l’idea che certamente è il sesso quello che si vuole – ma non sta bene dirlo troppo apertamente? Oppure è cinico, perché crede che siano gli altri ad essere ingenui, quelli che credono alla versione romantica dell’amore, senza rendersi conto di essere eterodiretti da impulsi biologici o al massimo psichici? In entrambe le risposte troviamo qualcosa di reale, ma lasciati a se stessi questi spezzoni di verità non andrebbero oltre la commedia all’italiana. Qui c’è di più: Nash non ha proprio idea di cosa sia in profondità il rito del corteggiamento. In realtà ogni situazione ha bisogno di “riti”, elaborati secondo modalità differenti nelle varie civiltà. Il rito può in certi casi decadere a ipocrisia, a vuoto rituale. Nel suo significato più autentico esprime un’importante verità: i rapporti umani hanno bisogno di tempo per essere formati. Hanno bisogno di esplorare, “annusare” l’altro, sperimentare se stessi e le varie possibilità che si aprono davanti a noi. I rapporti umani sono come il linguaggio naturale rispetto a quello formalizzato. Il linguaggio formalizzato è preciso, univoco, capace di esprimere senza ambiguità ed in modo assai veloce un concetto. Il linguaggio naturale è ambivalente, non ben delimitato, ridondante e impreciso. La matematica è un linguaggio altamente formalizzato, capace di risultati teoretici ed applicativi di grande spessore. Ma nessun linguaggio formalizzato, per quanto potente, può sostituirsi all’impreciso linguaggio naturale.

Una volta divenuto professore, Nash continua ad alimentare la sua avversione alla scorrere del tempo. Ha poca voglia di perderlo seguendo i suoi allievi, poiché essi non comprendono subito quello che per lui è evidente. Giunge tranquillamente a dire: “alcuni di voi impiegheranno mesi per risolvere questo problema, altri non ci riusciranno mai”. La matematica non ha bisogno del tempo. Non ha bisogno del mondo. Non c’è differenza tra mondo reale e mondo immaginato. A un certo punto la mente di Nash è abitata da personaggi che lui (e lo spettatore per un tratto della vicenda) scambia per reali. Chi ha ragione? John Nash o i medici che tentano di curarlo? Chi è il pazzo? C’è qualche momento di dubbio nel film, fino a che è proprio il tempo a divenire il criterio di verità. Le figure che abitano la mente sovraeccitata di Nash non conoscono lo scorrere degli anni. Il compagno di stanza, la bambina, l’agente segreto rimangono per sempre eguali a se stessi. È solo quando Nash si rende conto di questa contraddizione che riesce a distinguere realtà e immaginazione, salvezza e disperazione. Non lo salvano le terapie o l’orrore dell’elettroshock, ma la percezione che il fluire del tempo segna la differenza tra fantasmi e persone. L’amore tenace della moglie, che invecchia con lui, mantiene un filo di luminescenza in grado di farlo uscire dal labirinto delle sue fantasie. John Nash riesce anche a prendere interesse per gli allievi, per il loro faticoso cammino di comprensione, perfino per i loro errori.

Dal punto di vista dell’insegnante, la storia di John Nash presenta non pochi spunti di interesse. Il processo educativo richiede tempo: noi possiamo programmare, stabilire dei percorsi, dividerli in moduli, monitorarli: resta il fatto che la crescita del sapere e della persona avviene secondo tappe diversificate. Applicare una tempistica prefissata al rapporto con gli studenti è del tutto sconsigliabile. Ciò che per noi è “evidente” nell’altro ha bisogno di tempo. Ciò che dovrebbe essere appreso in un certo modo può trovare altre strade, e può capitare che giunga da un versante inaspettato, mentre noi spazientiti aspettiamo che giunga secondo quella via che ci sembra così ovvia.

Ma non c’è solo il versante “programma”. C’è anche e soprattutto il versante “studente”. Specialmente nell’età dell’adolescenza la fretta e l’impazienza possono dominare. Il giovane può aver fretta di raggiungere lo scopo, di classificare quanto incontra, di stabilire cosa merita stima e cosa no, chi ha ragione e chi ha torto. La comunicazione cui assiste è per lo più affrettata: chi telefona al giochino televisivo è subito un “amico”, gli animatori dei villaggi turistici esigono immediata socievolezza e automatica simpatia reciproca. I messaggi che riceve instillano l’idea di una vita senza tempo: si è subito adolescenti all’asilo e si rimane adolescenti anche a cinquant’anni. Invece c’è bisogno di tempo: tempo per scoprire chi si è, tempo per conoscere davvero l’altro, tempo anche per rendersi conto di cosa voglia dire studiare un determinato argomento. Si tratta di una educazione alla complessità del reale, alla scoperta che ci sono sempre più alternative in qualsiasi circostanza, all’esplorazione di soluzioni molteplici. A un certo punto del film il professor Nash “prima maniera” è infastidito dal rumore di alcuni lavori all’esterno dell’aula e pretende, nonostante il gran caldo, che la finestra venga tenuta chiusa. Una studentessa (che poi diverrà sua moglie) reclama invece che venga aperta. Nash sbotta che così l’unica alternativa è sospendere la lezione, mentre la studentessa trova un’altra strada: chiede cortesemente agli operai di lavorare nel frattempo da un’altra parte e tornare vicino all’aula più tardi.

La verità matematica di John Nash è digitale: vale a dire immediata, evidente, senza bisogno di precisazioni. Noi esseri umani funzioniamo in maniera diversa: noi dobbiamo interpretare quello che ci succede, quello che siamo, le persone che incontriamo, le discipline con le quali ci confrontiamo. L’interpretazione è un rischio, si può sbagliare, si deve discutere, non sempre in maniera molto logica, a volte sino a perdere apparentemente del tempo. Senza nulla togliere all’importanza di una gestione oculata di questo bene, anche nell’apprendimento esistono processi fondamentali che fanno riferimento al contesto, a un sapere non esplicitato, al gioco delle identità “indossate” per prova, specialmente nell’adolescenza. L’imperfezione connessa al faticoso crescere nel tempo è migliore di una impaziente totalità

A cura di
Anselmo Grotti
Copyright “Nuova Secondaria”
Fonte: www3.unisi.it

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