buddha-sri-lanka
Lasciatemi narrare di nuovo questa bellissima storia…

Quando iniziò al sannyas suo cugino Ananda – Ananda era più vecchio di Gautama il Buddha – questi gli disse: «Dopo l’iniziazione io non esisterò più. Il tuo mondo è la mia vita, il tuo ordine è il mio sentiero. Prima di essere iniziato sono ancora il più anziano, per cui voglio che tu prometta di rispettare tre condizioni… lo voglio adesso, perché più tardi non potrò più chiederti nulla, tu sarai il Maestro».

Gautama il Buddha disse: «Quali sono? Io non ho nulla da darti, a eccezione di questa ciotola per mendicare».
Ananda disse: «Non chiedo nulla di materiale. Chiedo qualcos’altro.
La prima condizione è questa: non mi manderai mai da nessuna parte a diffondere la parola, il messaggio. La seconda: starò con te tutto il giorno, e anche la notte dormirò con te nella stessa stanza in cui dormirai tu. E la terza: se ti pongo una qualsiasi domanda, o se ti porto qualcuno che vuole farti una qualsiasi domanda, non ti rifiuterai di rispondere».
Gautama il Buddha disse: «Non ci sono problemi. Accetto. E ti inizio al sannyas».

Non si rese conto che in questo modo si sarebbe trovato in diverse difficoltà. Ma il guaio più grosso accadde quando egli tornò nella sua casa, dopo dodici anni. Ananda era con lui, proprio come un’ombra.
Gautama il Buddha disse: «So che hai il diritto di essere presente al mio fianco, ovunque io vada, ma cerca di capire, hai l’intelligenza per farlo: la donna che ho amato dodici anni fa e che ho lasciato senza dirle neppure che stavo partendo… ovviamente sarà in collera. Appartiene a un’altra famiglia reale. Di fronte a te non mostrerà la sua ira, andrebbe contro le buone maniere, l’educazione. E io vorrei liberarla da tutta la sua rabbia, dalla sua ira. Ma lascio decidere a te. Ti chiedo di restare un po’ in disparte: stai fuori dalla porta del palazzo, lasciami vedere mia moglie…»

Ci fu un momento di silenzio, ma Ananda comprese la situazione e accettò che Gautama il Buddha si presentasse solo.
Ed era vero, la moglie era furibonda…
Disse: «Non sono in collera perché hai rinunciato al mondo.
Se volevi rinunciarvi, non te lo avrei mai impedito. La mia collera è per la tua sfiducia: non mi hai detto una sola parola e sei scappato nel cuore della notte. Questo mi ha ferito. Proprio come te, anch’io sono figlia di un grande guerriero, appartengo alla razza dei guerrieri. Noi mandiamo i nostri mariti in guerra con preghiere, con ghirlande, toccando i loro piedi, senza permettere a una sola lacrima di brillare nei nostri occhi, perché questo potrebbe frenarli, potrebbe distruggere il loro coraggio e il loro stile di vita. Se mi avessi detto che volevi rinunciare al mondo per cercare la verità, ne sarei stata orgogliosa. Tu mi hai mancato di rispetto. Hai leso la mia dignità. Non sono in collera perché te ne sei andato, ma perché non me ne hai detto il motivo».

Il Buddha stesso non ci aveva mai pensato, non avrebbe mai creduto che la causa di tanta ira potesse essere il suo non aver detto alla moglie…
E la moglie proseguì: «Se mi avessi amato veramente, avresti avuto fiducia in me. E io ti avrei lasciato andare, con preghiere nel cuore che tu riuscissi e fossi vittorioso nella tua ricerca, ma non mi hai permesso di farlo, non mi hai neppure concesso questa opportunità».

Gautama il Buddha disse: «Hai ragione. Sono venuto per chiederti perdono. Perdonami! Ciò che credevo fosse amore non lo era. Ora so cos’è l’amore. Ma ho voluto aspettare in modo che tu potessi liberarti dall’ira che devi aver accumulato in tutti questi dodici anni, giorno e notte, nella tua solitudine».
La moglie guardò Gautama il Buddha con le lacrime agli occhi perché poté vedere che quello non era lo stesso uomo che l’aveva lasciata. Aveva le stesse fattezze, ma tutto era mutato: un silenzio profondo, una presenza assoluta, occhi penetranti, compassione infinita.
Disse: «Prima che io stessa ti chieda di essere iniziata – se non posso essere tua moglie, perlomeno permettimi di essere tua discepola – tuo figlio aspetta da dodici anni… e io gli ho ripetuto:
“Aspetta. Un giorno tornerà”. E ora sei giunto, ma sei così trasformato, il tuo essere è così luminoso…»
E il figlio era ritto proprio di fianco alla madre. Lei lo spinse di fronte a Gautama il Buddha e disse: «Chiedi a tuo padre la tua eredità. Lui ti ha messo al mondo: quali altre responsabilità deve adempiere nei tuoi confronti?»

Il figlio glielo chiese e Gautama il Buddha disse: «Eccoti la tua eredità». E gli diede la sua ciotola da mendicante e lo iniziò al sannyas, dicendogli: «Non c’è nulla di più prezioso. Aspettavo questo momento, quando sarei stato veramente in grado di amarti. Ma il mio amore ora è di gran lunga lontano dall’amore di cui la gente parla e per il quale io non posso affatto usare la stessa parola. Lo definisco “compassione”. Ecco, vi porto entrambi nella mia compassione. Non ho altro da darvi, ma vi dono il mio stesso cuore e la mia esperienza più intima».

Ciò che noi chiamiamo amore non lo è. E la prova si ha solo quando l’amore inizia a scomparire; allora, all’improvviso ti accorgi che non era amore. Eri semplicemente pieno di brama, un’attrazione fisica, biologica. Non eri padrone del tuo amore, eri solo uno schiavo, governato dalle forze cieche della biologia.
Di certo quel tipo di passioni non può diventare compassione.
Se vuoi che il tuo amore cresca in compassione, allora come prima cosa lascia che sia amore! Non puoi sperare e basta. Non puoi seminare semi di calendula e sperare che spuntino rose.
I tuoi fiori mostreranno ciò che era nascosto nei semi.

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