SAPHIA E SOPHIA
Savia non fui, avvegna che Sapìa
fossi chiamata, e fui de li altrui danni
più lieta assai che di ventura mia. (47)
… luce intellettual, piena d’amore;
amor di vero ben, pien di letizia;
letizia che trascende ogne dolzore. (97)
INVIDIA, AMORE, E INVIDIA D’AMORE
Anche gli scrivani per servizio desidererebbero tanto di poter scoccare da una triforme penna, all’improvviso e in un solo istante, Forma e Materia, Ordine e Costrutto.
Ma dobbiamo rassegnarci ad essere così: schiavi del primadurantedopo.
Per questo vi anticipo ora l’esegetica classica del canto 47, per farvi capire dopo quanto siano stati ciechi gli occhi che l’hanno letto.
Il Canto XIII, che a molti interpreti moderni è sembrato tra i meno felici del poema, ha più che altro la funzione di introdurci nella II Cornice e preparare il terreno per l’episodio successivo di Guido del Duca, molto più significativo e interessante: qui sono molte le lungaggini e le parti puramente didascaliche, mentre la protagonista Sapìa è in effetti un personaggio non perfettamente centrato nella sua fisionomia. Abbastanza superfluo è il discorso che Virgilio rivolge al sole, che ha la sola funzione di spiegare perché il maestro decide di seguire l’Astro per incamminarsi lungo la Cornice (e l’allocuzione al sole è preceduta dalla descrizione di Virgilio che fa perno sulla gamba destra e si volta col fianco sinistro, con un movimento che «ha del ginnastico» come disse Momigliano). Seguono gli esempi di carità, gridati da voci aeree e non scolpiti come nella I Cornice, che sono assai meno ampi e particolareggiati di quelli di umiltà (si riducono a tre, ovvero il miracolo delle nozze di Cana, la nobile gara tra Oreste e Pilade e l’insegnamento della carità di Gesù ai discepoli, ‘Amate da cui male aveste’, che a ben vedere è una massima generica e non un vero esempio). Puramente didascalica anche la successiva chiosa di Virgilio, che spiega che in questa Cornice è punita l’invidia e, ovviamente, all’uscita gli esempi saranno quelli di invidia punita.
(https://divinacommedia.weebly.com/purgatorio-canto-xiii.html)
Andiamo per gradi, e adesso guardiamo Virgilio.
«Se qui per dimandar gente s’aspetta»,
ragionava il poeta, «io temo forse
che troppo avrà d’indugio nostra eletta». 12
Poi fisamente al sole li occhi porse;
fece del destro lato a muover centro,
e la sinistra parte di sé torse. 15
«O dolce lume a cui fidanza i’ entro
per lo novo cammin, tu ne conduci»,
dicea, «come condur si vuol quinc’entro. 18
Tu scaldi il mondo, tu sovr’esso luci;
s’altra ragione in contrario non ponta,
esser dien sempre li tuoi raggi duci». 21
(47)
Virgilio rifletteva: «Se qui aspettiamo qualcuno per domandare, temo che forse la nostra scelta ci farà indugiare troppo». Poi guardò con fissità il sole; fece perno sul piede destro e torse il lato sinistro del suo corpo. Diceva: «O dolce lume, confidando nel quale io intraprendo il nuovo cammino, tu ci guidi come si deve fare in questo luogo. Tu scaldi il mondo e lo illumini; se non c’è una ragione apertamente contraria, i tuoi raggi devono sempre essere guida».
Sole, fonte di Luce, di Chiarità di Intelligenza e di Sapienza, e Virgilio si affida a questa Energia evitando di chiedere la strada a qualcuno che passi per via. Siamo nel mezzogiorno del mercoledi 29 marzo 1301, come conferma l’incipit del canto 97: Forse semilia miglia di lontano ci ferve l’ora sesta, sulla Terra, a circa seimila miglia di distanza, arde il mezzogiorno.
Due incipit in sincronia che vengono dedicati al Sole.
Ma osserviamo meglio il gesto di Virgilio che, per girare a sinistra (movimento sinistrorso di tutto il Viaggio) fa leva in modo innaturale sulla gamba destra. Scambia la destra con la sinistra. Ricordarsi di questa cosa, quando sentiremo le voci (ora non ci sono né marmi né disegni) che annunciano gli esempi di Carità, contrari all’Invidia che viene guarita nella Seconda Cornice.
La prima voce che passò volando
‘Vinum non habent’ altamente disse,
e dietro a noi l’andò reiterando. 30
E prima che del tutto non si udisse
per allungarsi, un’altra ‘I’ sono Oreste’
passò gridando, e anco non s’affisse. 33
«Oh!», diss’io, «padre, che voci son queste?».
E com’io domandai, ecco la terza
dicendo: ‘Amate da cui male aveste’. 36
(47)
La prima voce che passò volando, disse gridando: ‘Non hanno vino’, e l’andò ripetendo dietro di noi.
E prima che svanisse del tutto per la distanza, un’altra passò gridando: ‘Io sono Oreste’, e anche questa non si fermò. Io dissi: «Oh! padre, che voci sono queste?» E non appena domandai, ecco la terza che diceva: ‘Amate coloro che vi hanno fatto del male’. Carità di Maria, quando s’accorse che al pranzo di nozze era finito il vino, e l’acqua sarà scambiata in vino.
Carità di Pilade, quando vide che Oreste avrebbe dovuto pagare la colpa di aver ucciso la madre Clitennestra, e gridò Oreste sono io, per prendere il suo posto. Per scambiarsi.
Carità del Cristo, quando annuncia ai suoi discepoli di amare chi vi ha fatto del male, scambiando l’ODIO in AMORE. (E questo non è neanche un esempio (sic!), è solo parola del Cristo: li ricordate i narcisetti sapientoni del canto 96?).
RAGAZZI BELLI! Siamo entrati nei canti ultimi che precedono la GRANDE TRASFORMAZIONE (47-97, 48-98 e 49-99), e che preparano la sublime palingenesi dei canti 50-100! Per davvero il GRANDE SCAMBIAMENTO!
Non è cosa da guardare con la puzza sotto il naso, o col sorrisino estetico di chi sa valutare il bello e il brutto: qui si compie l’Opera, secondo l’Ordine di Lettura decretato dall’Alighieri, con il dialogo 50-100. Qui avviene il definitivo rispecchiamento fra UOMO e MISTERO.
Lo devo dire che questo è il rovello che ci accompagna in tutta la nostra vita? Anche quando distrattamente ci rifiutiamo di pensarlo. Ma non sto parlando del XXXIII in cui Dante VEDE il Mistero: è l’Umanità dei canti del Purgatorio (noi tutti) che si specchia all’ineffabile TRAGUARDO: la VERITÀ, il numero 12 della Diritta Via Pitagorica.
Una Umanità invidiosa e iraconda, che in terra è stracolma di livore e di rabbia. E sono ciechi gli invidiosi, e sono ciechi gi iracondi, e anche Dante, in sincronia, viene abbagliato lassù nell’Empireo tanto da non riuscire più a vedere, e così, per cecità e per amore, rivolge gli occhi verso Beatrice.
Non altrimenti il triunfo che lude
sempre dintorno al punto che mi vinse,
parendo inchiuso da quel ch’elli ‘nchiude, 12
a poco a poco al mio veder si stinse:
per che tornar con li occhi a Beatrice
nulla vedere e amor mi costrinse. 15
Se quanto infino a qui di lei si dice
fosse conchiuso tutto in una loda,
poca sarebbe a fornir questa vice. 18
La bellezza ch’io vidi si trasmoda
non pur di là da noi, ma certo io credo
che solo il suo fattor tutta la goda. 21
Da questo passo vinto mi concedo
più che già mai da punto di suo tema
soprato fosse comico o tragedo: 24
ché, come sole in viso che più trema,
così lo rimembrar del dolce riso
la mente mia da me medesmo scema. 27
Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso
in questa vita, infino a questa vista,
non m’è il seguire al mio cantar preciso; 30
ma or convien che mio seguir desista
più dietro a sua bellezza, poetando,
come a l’ultimo suo ciascuno artista. 33
(97)
In modo analogo il trionfo (i cori angelici) che ruota sempre festante intorno a quel punto luminoso (Dio) che vinse la mia vista, e che sembra racchiuso da ciò che esso stesso racchiude, poco alla volta svanì alla mia vista: dunque il non vedere più nulla e l’amore mi spinsero a rivolgere i miei occhi di nuovo a Beatrice. Se tutto ciò che è stato detto finora su di lei fosse racchiuso in un’unica lode, essa sarebbe insufficiente a questo compito. La bellezza di lei che io vidi si tramutava in qualcosa non solo al di là dell’umano, ma io credo per certo che solo il suo Creatore (Dio) la possa godere pienamente. Ammetto di essere vinto da questo punto, assai più di quanto potrebbe esserlo un autore di stile medio o sublime da un aspetto problematico del tema affrontato: infatti, come il sole in una vista debole, così il ricordo del suo dolce sorriso fa venir meno il mio intelletto. Dal primo giorno in cui vidi il viso di Beatrice in questa vita, fino a questa visione di lei in Paradiso, il mio canto non è stato mai interrotto; ma ora è inevitabile che io desista dal seguire la sua bellezza, scrivendo i miei versi, come un artista che ha raggiunto il limite estremo delle sue capacità.
Il nostro Artista è veramente diventato autobiografico! E lascio a voi l’incanto di questi versi, e all’Amore che li nutre. E a questa Beatrice che ora si SCAMBIA in divinità perché soli il DIVINO può godere di tutta la sua bellezza!
Ma più o meno alla stessa altezza, nel canto 46, il Poeta, accecato in Cielo dalla Luce d’Amore, prova una altissima commozione per la cecità degli Invidiosi. (E AMORE è OPPOSTO all’INVIDIA).
E ‘l buon maestro: «Questo cinghio sferza
la colpa de la invidia, e però sono
tratte d’amor le corde de la ferza. 39
Lo fren vuol esser del contrario suono;
credo che l’udirai, per mio avviso,
prima che giunghi al passo del perdono. 42
Ma ficca li occhi per l’aere ben fiso,
e vedrai gente innanzi a noi sedersi,
e ciascuno è lungo la grotta assiso». 45
Allora più che prima li occhi apersi;
guarda’mi innanzi, e vidi ombre con manti
al color de la pietra non diversi. 48
E poi che fummo un poco più avanti,
udia gridar: ‘Maria, òra per noi’:
gridar ‘Michele’ e ‘Pietro’, e ‘Tutti santi’. 51
Non credo che per terra vada ancoi
omo sì duro, che non fosse punto
per compassion di quel ch’i’ vidi poi; 54
ché, quando fui sì presso di lor giunto,
che li atti loro a me venivan certi,
per li occhi fui di grave dolor munto. 57
Di vil ciliccio mi parean coperti,
e l’un sofferia l’altro con la spalla,
e tutti da la ripa eran sofferti. 60
Così li ciechi a cui la roba falla
stanno a’ perdoni a chieder lor bisogna,
e l’uno il capo sopra l’altro avvalla, 63
perché ‘n altrui pietà tosto si pogna,
non pur per lo sonar de le parole,
ma per la vista che non meno agogna. 66
E come a li orbi non approda il sole,
così a l’ombre quivi, ond’io parlo ora,
luce del ciel di sé largir non vole; 69
ché a tutti un fil di ferro i cigli fóra
e cusce sì, come a sparvier selvaggio
si fa però che queto non dimora. 72
(47)
E il buon maestro disse: «Questa Cornice punisce il peccato di invidia, e perciò le corde della sferza sono mosse dall’amore (gli esempi sono di carità). Il freno sarà invece di segno contrario: saranno esempi di invidia punita; credo che tu ne sentirai le voci prima di giungere al passaggio del perdono (dov’è l’angelo). Ma spingi lo sguardo con attenzione nell’aria e vedrai anime che si siedono davanti a noi, ciascuna appoggiata lungo la parete». Allora aprii gli occhi più di prima; guardai davanti a me e vidi delle anime che indossavano mantelli di colore simile alla pietra. E quando fummo avanzati un poco, sentivo gridare: ‘Maria, prega per noi’: e poi ‘Michele’, ‘Pietro’ e ‘Tutti i santi’. Non credo che in Terra ci sia un uomo così crudele da non provare compassione per quello che poi vidi; infatti, quando fui giunto vicino a quelle anime, tanto da vedere bene i loro gesti, versai lacrime di dolore dai miei occhi. Mi sembravano coperti di un vile cilicio, e l’uno sosteneva l’altro con la spalla, e tutti erano appoggiati alla parete del monte. Così i ciechi, privi del sostentamento, stanno davanti alle chiese nei giorni di indulgenze a chiedere l’elemosina, e l’uno sostiene il capo dell’altro, per suscitare presto la pietà altrui, non solo col suono delle parole ma anche con la vista che provoca non minor compassione. E come ai ciechi non arriva la luce del sole, così a quelle anime nella Cornice, di cui sto parlando, il cielo non vuole concedere la sua luce; infatti un fil di ferro trapassa a tutti loro le ciglia e le cuce, proprio come si fa a uno sparviero selvaggio quando non è tranquillo.
Tutta la cornice degli Invidiosi è color della pietra. Anche negli abiti, ma soprattutto nei cuori. In vita gli Invidiosi hanno cuore di pietra e occhi che vedono troppo, perché l’Invidia passa attraverso gli occhi, come l’Amore del resto, ma lo sguardo cattivo è quello del malocchio, come dicevano gli antichi. E allora adesso chiediamoci la presenza del superfluo discorso di Virgilio attorno al Sole!
Nel 50 Marco Lombardo chioserà le tenebre degli Invidiosi e degli Iracondi con la sua esclamazione: Frate, lo mondo è cieco e tu vien ben da lui!
Cecità è mutilazione dell’Intelletto, e infatti l’Intelletto viene conquistato nel 50: è impossibilità totale di raggiungere Coscienza e Sapienza. Mentre questo viene detto nel 47, quando si entra nella II Cornice, proprio nel 97 si entra nell’Empireo, Cielo di Tutta Luce che è capace di oscurare anche il Sole, e che acceca gli occhi di Dante.
Cotal qual io lascio a maggior bando
che quel de la mia tuba, che deduce
l’ardua sua matera terminando, 36
con atto e voce di spedito duce
ricominciò: «Noi siamo usciti fore
del maggior corpo al ciel ch’è pura luce: 39
luce intellettual, piena d’amore;
amor di vero ben, pien di letizia;
letizia che trascende ogne dolzore. 42
Qui vederai l’una e l’altra milizia
di paradiso, e l’una in quelli aspetti
che tu vedrai a l’ultima giustizia». 45
Come sùbito lampo che discetti
li spiriti visivi, sì che priva
da l’atto l’occhio di più forti obietti, 48
così mi circunfulse luce viva,
e lasciommi fasciato di tal velo
del suo fulgor, che nulla m’appariva. 51
(97)
Beatrice, bella come io lascio descrivere a una poesia più adeguata dei miei versi, che si sforzano di terminare la descrizione della materia paradisiaca, con l’atteggiamento e la voce di una guida decisa ricominciò: «Noi siamo usciti fuori dal Cielo più esteso (il Primo Mobile) a quello (l’Empireo) che è fatto di pura luce: una luce intellettuale, piena d’amore; un amore di autentico bene, pieno di gioia; una gioia che supera ogni dolcezza. Qui tu vedrai entrambe le schiere (angeli e beati) del Paradiso, e una di essi (i beati) con quell’aspetto che vedrai il Giorno del Giudizio (coi corpi terreni)». Come un lampo improvviso che disperda le facoltà visive, cosicché priva l’occhio della capacità di vedere altri oggetti, così fui avvolto da una luce vivissima, che mi fasciò di un velo tale col suo fulgore che io non vedevo nient’altro.
Ennesimo miracolo dantesco: vedrai i Beati col loro Corpo riconquistato nel Nono Giorno, dopo il Giudizio Universale (ricordarsene ora, per meglio comprendere il dopo!).
Però non posso fare a meno di osservare che gli ultimi canti del Paradiso, letti nella loro adamantina solitudine, davvero ci conducono agli Splendidi Fulgori, tanto da sentirsi avvolti dalla loro stessa Luce abbagliante, e anche i più scettici possono percepire il cuore che alza il suo ritmo. Ma credo che, con il loro sincronico rispecchiamento, ci facciano addirittura fibrillare, annegandoci nella nostra dolorosa e drammatica dualità composta da tenebre e luce.
Dal vangelo di Giovanni, III, 19
[19]E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Sarebbe stato impossibile citare questo versetto di Giovanni in solitudine adamantina! Però è quello che domina tutto il Rispecchiamento.
Esaminiamo il saluto di Dante agli Invidiosi:
Volsimi a loro e «O gente sicura»,
incominciai, «di veder l’alto lume
che ‘l disio vostro solo ha in sua cura, 87
se tosto grazia resolva le schiume
di vostra coscienza sì che chiaro
per essa scenda de la mente il fiume, 90
ditemi, ché mi fia grazioso e caro,
s’anima è qui tra voi che sia latina;
e forse lei sarà buon s’i’ l’apparo». 93
(47)
Mi rivolsi a loro e iniziai: «O anime sicure di vedere l’alta luce (che Dante sta vedendo nell’Empireo) che è il solo oggetto del vostro desiderio, possa la grazia eliminare presto le schiume della vostra coscienza, così che il fiume della memoria scenda nella vostra anima con acque limpide; ditemi, perché mi sarà molto gradito, se tra voi c’è un’anima che sia latina; e forse le sarà utile se io lo apprendo».
Sempre con la sua filigranata leggerezza, Dante ricorda il suo Passaggio del Lete, del fiume della memoria, già vissuto come reale esperienza nel dialogo 15-65, e così lo augura agli Spiriti Purganti (un indizio di qualche importanza relativo al suo Ordine di Lettura). E chiede notizie di un’anima latina, alla quale, forse, potrebbe essere di beneficio un dialogo con il Poeta.
Strano presagio, che proprio porterebbe a pensare che Sapìa sia in effetti un personaggio non perfettamente centrato nella sua fisionomia (sic!).
È proprio lei a rispondere, la Sapìa Silvani senese, zia di quel Provenzan Silvani già apparso nel canto precedente, quello di Oderisi da Gubbio, e sconfitto dai fiorentini nella battaglia di Colle Val d’Elsa il 16 giugno 1269.
Con risposta cortese, ma molto assertiva, lei afferma:
«O frate mio, ciascuna è cittadina
d’una vera città; ma tu vuo’ dire
che vivesse in Italia peregrina». 96
(47)
«O fratello mio, ciascuna di noi è cittadina di una vera città (il Paradiso); ma tu vuoi forse dire un’anima che abbia vissuto il suo pellegrinaggio terreno in Italia».
Conferma ciò che Dante già aveva detto nel saluto attorno al desidero delle anime di vedere il paradiso, ma forse se n’era già dimenticato, perché mai si dimentica di essere umani!
«Spirto», diss’io, «che per salir ti dome,
se tu se’ quelli che mi rispondesti,
fammiti conto o per luogo o per nome». 105
«Io fui sanese», rispuose, «e con questi
altri rimendo qui la vita ria,
lagrimando a colui che sé ne presti. 108
Savia non fui, avvegna che Sapìa
fossi chiamata, e fui de li altrui danni
più lieta assai che di ventura mia. 111
E perché tu non creda ch’io t’inganni,
odi s’i’ fui, com’io ti dico, folle,
già discendendo l’arco d’i miei anni. 114
Eran li cittadin miei presso a Colle
in campo giunti co’ loro avversari,
e io pregava Iddio di quel ch’e’ volle. 117
Rotti fuor quivi e vòlti ne li amari
passi di fuga; e veggendo la caccia,
letizia presi a tutte altre dispari, 120
tanto ch’io volsi in sù l’ardita faccia,
gridando a Dio: “Omai più non ti temo!”,
come fé ‘l merlo per poca bonaccia. 123
Pace volli con Dio in su lo stremo
de la mia vita; e ancor non sarebbe
lo mio dover per penitenza scemo, 126
se ciò non fosse, ch’a memoria m’ebbe
Pier Pettinaio in sue sante orazioni,
a cui di me per caritate increbbe. 129
Ma tu chi se’, che nostre condizioni
vai dimandando, e porti li occhi sciolti,
sì com’io credo, e spirando ragioni?». 132
(47)
Io dissi: «Spirito, che per salire il monte ti mortifichi, se tu sei quello che mi hai risposto, manifestati dicendo il luogo da dove vieni o il tuo nome». Rispose: «Io fui senese, e purifico la mia vita peccaminosa con questi altri, piangendo verso colui (Dio) perché si presti a noi (concedendoci la luce). Non fui saggia, benché fossi chiamata Sapìa (Savia), e fui molto più lieta delle sventure altrui che della mia fortuna. E perché tu non creda che ti sto ingannando, senti se fui folle, come io ti dico, quando ormai ero nella fase finale della mia vita. I miei concittadini erano giunti in battaglia coi loro nemici presso a Colle Val d’Elsa, e io pregavo Dio di ciò che poi lui volle. Qui i Senesi furono sconfitti e costretti a un’amara fuga; e vedendo quella rotta, provai una gioia superiore a qualunque altra, tanto che volsi al cielo la faccia ardita, gridando a Dio: “Ormai non ti temo più!”, come fece il merlo per un breve giorno di sole. Chiesi perdono a Dio alla fine dei miei giorni; e il mio dovere di fare penitenza sarebbe ancora tutto intero, se non fosse per Pier Pettinaio che si ricordò di me nelle sue sante preghiere, e al quale rincrebbe di me per la sua carità. Ma tu chi sei, che domandi della nostra condizione e hai gli occhi liberi, come io credo, e parli respirando?»
Discorso limpido e lucido, risposta sintetica e chiara. Che ci riporta addirittura al Proemio del Poema, al dialogo 1-51, quando Virgilio nel 51 rispecchia le tre belve dell’1, al nostro triforme amor, al nostro amor deviato.
Resta, se dividendo bene stimo,
che ‘l mal che s’ama è del prossimo; ed esso
amor nasce in tre modi in vostro limo. 114
È chi, per esser suo vicin soppresso,
spera eccellenza, e sol per questo brama
ch’el sia di sua grandezza in basso messo; 117
è chi podere, grazia, onore e fama
teme di perder perch’altri sormonti,
onde s’attrista sì che ‘l contrario ama; 120
ed è chi per ingiuria par ch’aonti,
sì che si fa de la vendetta ghiotto,
e tal convien che ‘l male altrui impronti. 123
Questo triforme amor qua giù di sotto
si piange; or vo’ che tu de l’altro intende,
che corre al ben con ordine corrotto. 126
(51)
Resta, se la mia classificazione è esatta, che l’amore mal diretto vuole il male del prossimo; e questo amore nella vostra natura nasce in tre modi diversi. Vi è chi spera di primeggiare calpestando il suo vicino, e solo per questo desidera che quello perda la sua grandezza (il narcisismo della lince); vi è chi teme di perdere potere, favore, onore e fama se un altro lo supera, per cui si rattrista al punto da desiderare l’opposto (il narcisismo del leone); e vi è chi sembra adombrarsi per aver ricevuto un’offesa al punto di desiderare la vendetta, e quindi si augura il male altrui (il narcisismo della lupa). Questo triplice amore è punito nelle Cornici sottostanti (superbi, invidiosi, iracondi); ora voglio che tu pensi all’altro, quello che corre al bene in modo sbagliato (agli Accidiosi che sono gli Spiriti della Quarta Cornice).
Da qui, dall’incipit del Poema 1-51, cominciamo a capire, che il vero problema della nostra vita è un problema d’amore. Sapìa confessa di aver provato la terza forma d’amore deviato: il desiderio del male altrui, la brama di vendetta, il narcisismo della lupa. Di aver pregato Dio perché i Senesi fossero massacrati, tanto da poter gridare a Dio, IN VITA, “Ormai non ti temo più”!
Ciò che sfugge ai Lettori distratti, e un pochino ciechi, è la reticenza di Sapìa che non rivela assolutamente la causa del suo odio vendicativo. E perché avrebbe dovuto farlo, lei che già si sente Cittadina del Paradiso? Oggi come oggi, chi ha letto solo qualche riga di psicologia, vedrebbe già, dentro la reticenza, la sindrome del bambino ferito: genitori oppressivi? un matrimonio riuscito male? non essere stata amata come avrebbe voluto essere amata? E che importa, se il purgatorio coincide con la guarigione della ferita? (Inutile raccontarvi quanto l’ossessione del bambino ferito ci rende schiavi, e impossibilitati a raggiungere la Libertà). Ma lei si pente soprattutto dell’errore di essersi sentita superiore nei confronti del MISTERO, e questa è la sua reale confessione dalla quale poter trarre il beneficio promesso dal presagio di Dante (così come è stata aiutata dall’amore delle preghiere di Pier Pettinaio, cittadino senese che fu ritenuto santo e venerato dai Senesi, che nel 1328 istituirono una festa annuale in suo onore).
Il purgatorio è terra di liberazione che spalanca i cieli solo grazie al desiderio di poter vedere Dio, per amarlo.
E questo è molto chiaro! Molto saphòs, avrebbero detto i greci antichi.
L’Alighieri non conosceva il greco, ma molti suoi amici sì. Forse qualcuno distrattamente l’aveva detto in sua presenza. E quanto sia chiara l’Intelligenza della Ragione, il Poeta forse l’ha traslitterato in SAPHIA: Sapìa, diametralmente opposta alla Sapienza (Intelligenza dello Spirito), alla sua Sophia-Beatrice, e forse anche di più, proprio opposta alla Divina Sapienza. Perché tutto sia veramente trattenuto da identico legame.
E in questo stesso istante, nel 97, l’Empireo (la Sapienza di Dio) entra dentro gli occhi di Dante:
«L’amore che rende quieto questo Cielo accoglie sempre l’anima che vi entra con questo saluto (di Luce intensa), per adattare la candela alla sua fiamma (per disporre alla visione divina)».
Queste brevi parole non erano ancora giunte dentro di me, che io compresi che andavo al di là delle mie facoltà naturali; e acquistai una nuova capacità visiva, tale che non esiste una luce tanto intensa che i miei occhi non riuscissero a sostenerla; e vidi una luce in forma di fiume, di fulgore rosseggiante, tra due rive ornate di bellissimi fiori primaverili. Da questo fiume uscivano delle faville splendenti, e si mettevano da ogni parte tra i fiori, simili a rubini incastonati nell’oro; poi, come se fossero inebriate dal profumo, si risprofondavano nel mirabile gorgo (il fiume di luce); e se una favilla vi entrava, un’altra usciva subito fuori.
«L’intenso desiderio che adesso ti infiamma e ti spinge, e cioè di sapere cos’è quello che vedi, mi piace tanto più quanto più esso ti riempie; ma è necessario che tu beva ancora di quest’acqua, prima che una tale sete sia saziata dentro di te»: così mi disse Beatrice, il sole dei miei occhi.
E aggiunse ancora: «Il fiume e i topazi (gli angeli) che entrano ed escono, e la bellezza dei fiori sono anticipazioni adombrate della loro reale essenza. Non che queste cose siano di per sé imperfette, ma c’è una mancanza da parte tua, poiché non hai ancora la vista pronta a osservare tali spettacoli». Un bambino, svegliatosi molto più tardi del solito, non corre improvvisamente verso il latte quanto feci io, per fare ancora dei miei occhi specchi migliori, chinandomi verso quel fiume che scorre per poter guardare meglio; e non appena l’orlo delle mie palpebre ebbe bevuto di quella visione, così mi sembrò che il lungo fiume fosse diventato tondo. Poi, come persone che hanno indossato delle maschere e si spogliano delle sembianze artefatte, apparendo diverse da come erano prima, così i fiori e le faville si trasformarono ai miei occhi in immagini più festose, cosicché io vidi apertamente entrambe le corti del Cielo (i Fiori-Beati e le Faville-Angeliche).
O splendore di Dio, grazie al quale io vidi l’alto trionfo del regno verace, concedimi la virtù necessaria a riferire la mia visione! Lassù nell’Empireo c’è una luce che rende visibile il Creatore a quella creatura che trova la sua pace solo nel vedere Lui. Tale luce si distende in una figura circolare (la rosa celeste), a tal punto che la sua circonferenza sarebbe assai più larga di quella del Cielo del Sole. Tutto ciò che si vede di essa si forma da un raggio che si riflette sulla superficie concava del Primo Mobile, che trae da esso il suo moto e la sua virtù. E come un colle si specchia nell’acqua alle sue pendici, come per vedersi adornato quando ha le erbe verdi e i fiori rigogliosi, così, stando tutt’intorno a quella luce, vidi specchiarsi in più di mille gradinate tutte le anime beate che hanno fatto ritorno lassù. E se il gradino più basso raccoglie in sé una luce tanto grande, quanto dev’essere ampia questa rosa nei suoi petali più esterni! La mia vista non si smarriva a causa dell’ampiezza e dell’altezza della rosa, ma percepiva interamente la quantità e la qualità di quella allegria. La vicinanza e la distanza, lì nell’Empireo, non aggiunge né toglie nulla: infatti, dove Dio governa direttamente, le leggi naturali non hanno alcun valore. Beatrice, mentre io tacevo pur volendo parlare, mi condusse al centro della rosa eterna, che digrada verso il basso e si estende ed emana un profumo di lode al sole che fa sempre primavera (Dio), e mi disse: «Osserva quanto è esteso il concilio delle stole bianche (dei beati)! Vedi quanto è grande la nostra città; vedi i nostri seggi talmente occupati, che ben pochi di essi sono rimasti liberi. (97)
L’andare e il tornare, il ricevere e il dare, tutto deve vivere nell’armonia della reciprocità, dello SCAMBIO, e così Dante, anche in Purgatorio, ricambia (o scambia) la sua confessione con quella di Sapìa.
«Li occhi», diss’io, «mi fieno ancor qui tolti,
ma picciol tempo, ché poca è l’offesa
fatta per esser con invidia vòlti. 135
Troppa è più la paura ond’è sospesa
l’anima mia del tormento di sotto,
che già lo ‘ncarco di là giù mi pesa». 138
Ed ella a me: «Chi t’ha dunque condotto
qua sù tra noi, se giù ritornar credi?».
E io: «Costui ch’è meco e non fa motto. 141
E vivo sono; e però mi richiedi,
spirito eletto, se tu vuo’ ch’i’ mova
di là per te ancor li mortai piedi». 144
(47)
Io dissi: «Gli occhi mi saranno cuciti in questa Cornice, ma per poco tempo, poiché ho peccato lievemente volgendoli con invidia. La mia anima ha molta più paura del tormento della Cornice sottostante, tanto che il carico del macigno di laggiù già pesa sulle mie spalle».
E lei a me: «Dunque chi ti ha guidato quassù tra noi, visto che credi di tornare sulla Terra?» E io: «Questi (Virgilio), che è con me e resta in silenzio. E sono in vita; perciò, spirito eletto, chiedimi se vuoi che io, sulla Terra, muova per te i miei piedi mortali (vada da qualcuno per tuo conto)».
Dovrò trovarmi pure io fra gli Invidiosi, perchè lievemente ho invidiato. Ma mi peserà ancora di più la mia Superbia.
Come Dante si è confessato a Beatrice nell’Eden, così il Poeta si confessa a Sapìa (segmento di corda perfettamente lineare fra il 47 e il 65, perché tocca le intersezioni delle due Triadi).
Ve ne siete già accorti che in tale Rispecchiamento viene chiesto a noi tutti un Esame di Coscienza: non si potrebbe mai giungere al MISTERO senza un sincero atto di Umiltà.
Posso fare ancora qualcosa per te, Sapìa?
«Oh, questa è a udir sì cosa nuova»,
rispuose, «che gran segno è che Dio t’ami;
però col priego tuo talor mi giova. 147
E cheggioti, per quel che tu più brami,
se mai calchi la terra di Toscana,
che a’ miei propinqui tu ben mi rinfami.150
Tu li vedrai tra quella gente vana
che spera in Talamone, e perderagli
più di speranza ch’a trovar la Diana;
ma più vi perderanno li ammiragli». 154
(47)
Rispose: «Oh, questa è una novità tale che è un segno dell’amore che Dio ha per te; perciò, talvolta, ricordami nelle tue preghiere. E ti chiedo, in nome di ciò che tu desideri di più, se mai andrai in Toscana, che tu ripari la mia reputazione presso i miei congiunti. Li troverai tra quel popolo vanesio, che spera tanto nel porto di Talamone e vi perderà più soldi che nella speranza di trovare il fiume della Diana; ma a perderci di più saranno gli stessi ammiragli».
Prega la riconciliazione con la famiglia (forse una volta odiata) che vive fra i Senesi, certamente odiati, ma ora li giudica vanitosi vanesi e vaneggianti, soltanto desiderosi di possedere un vero porto, che ancora ai nostri giorni si definisce porticciolo.
Nell’Empireo invece Dante sta osservando un Soglio vuoto, un porto al quale qualcuno deve approdare:
E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni
per la corona che già v’è sù posta,
prima che tu a queste nozze ceni, 135
sederà l’alma, che fia giù agosta,
de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia
verrà in prima ch’ella sia disposta. 138
La cieca cupidigia che v’ammalia
simili fatti v’ha al fantolino
che muor per fame e caccia via la balia. 141
E fia prefetto nel foro divino
allora tal, che palese e coverto
non anderà con lui per un cammino. 144
Ma poco poi sarà da Dio sofferto
nel santo officio; ch’el sarà detruso
là dove Simon mago è per suo merto,
e farà quel d’Alagna intrar più giuso». 148
(97)
E in quel gran seggio su cui tieni fisso il tuo sguardo per la corona che vi è deposta sopra, prima che tu ascenda al Paradiso siederà l’anima dell’alto Arrigo VII, che sarà imperatore sulla Terra e verrà a raddrizzare l’Italia prima che essa sia pronta ad accoglierlo. La cieca avarizia che vi seduce vi ha resi simili al bambino che muore di fame, e tuttavia manda via la nutrice. E allora sarà pontefice nella Curia di Roma un tale (Clemente V) che non andrà con lui per una sola strada e agirà in modo diverso pubblicamente e in segreto. Ma Dio lo tollererà poco tempo nel santo ufficio; infatti egli sarà spinto giù (nella buca della III Bolgia) dove si trova già Simon mago per i suoi crimini, e spingerà ancora più a fondo il papa di Anagni (Bonifacio VIII)».
La cieca e vanesia avidità ancora sarà vostro danno, come lo fu per i Senesi: e se l’Empireo è un vortice che attrae per Luce e per Amore, invece i Pastori Erranti, che per superbo orgoglio e brame indegne svendono Dio e gli Umani, saranno risucchiati dentro gli anfratti della roccia, dove la tenebra è più nera (dialogo 19-69).
(Per dovere di informazione, il soglio di Arrigo VII si trova nel Cielo di Mercurio, fra gli Spiriti Attivi. Il Cielo in cui Dante sarà invitato alla sua cena di nozze!)
La nostra Intelligenza che con chiarezza legge il mondo (e cioè Saphia, e vi invito a rileggere il dialogo 24-74), viene offuscata sempre dalle nostre ferite interiori, dai nostri veri e supposti dolori, e così se ne perde la Luce, e per questo il contrappasso ci dona le Tenebre. Proprio in questa nerissima notte, il Poeta ci fa entrare nel Sigillo 50, quello dell’Anima Intellettiva. Sono certa che ora tutti gli Ingegni Sottili sapranno apprezzare questa sublime regia che fa risaltare la drammatica dicotomia fra la LUCE-AMORE e la FOLLIA-DISAMORE.
… Odi s’i’ fui, com’io ti dico, folle… annuncia Sapìa.
E come è bello sapere che il Paradiso mai si dimentica di noi, terreni e umani, smarriti e oscillanti.
Maria Castronovo