22-72: il XXII dell’Inferno (quinta bolgia) e il V del Paradiso:

BEFFE ED INGANNI

… ne la chiesa coi santi, e in taverna coi ghiottoni…  (22)

… non prendan li mortali il voto a ciancia… (72)

DIAVOLI INGANNATI E UOMINI BEFFATI

Io vo’ saper se l’uom può sodisfarvi

ai voti manchi sì con altri beni,

ch’a la vostra statera non sien parvi».    138

(71)

 Dunque che render puossi per ristoro?

Se credi bene usar quel c’hai offerto,

di maltolletto vuo’ far buon lavoro.          33

(72)

Dunque, cosa mai si potrebbe dare in cambio di esso? Se tu volessi usare ciò che hai offerto, è come se volessi fare una buona opera coi proventi di un furto.

Se manco a un voto, posso sostituirlo con un’opera buona? Certo che sì, risponde Beatrice, fai una offerta in denaro alla Chiesa (che accetterà di buon grado) e tutto questo sarà vile come gesto di baratteria o di furto!

Sono due canti pre-luterani, per chi ama Teologia. Oppure sono Commedia dell’Arte, per chi ama teatro e inganni.

E comunque, che molti fedeli giudichino i voti come fossero un baratto, viene detto da Beatrice in persona.

E se nel 22 ci si fa beffa dei diavoli, senz’altro nel 72 ci si fa beffa di Dio. Tanto da dubitare che possa esistere il contrario… in chiesa coi ghiottoni e in taverna con i santi!

«Lo maggior don che Dio per sua larghezza

fesse creando, e a la sua bontate

più conformato, e quel ch’e’ più apprezza  21

fu de la volontà la libertate;

di che le creature intelligenti,

e tutte e sole, fuoro e son dotate.                24

 (72)

«Il più grande dono che Dio, per sua generosità, fece creando l’uomo, e quello più conforme alla sua bontà, e quello che Lui più apprezza, fu la libertà della volontà; di essa tutte le creature intelligenti (uomini e angeli), e solo loro, sono dotate.

Ed è sempre Beatrice che insiste sul primato della Volontà: anzi della Libera Volontà, divino dono che appartiene ad angeli e uomini. Ma sono certa che voi ben ricordate grandezza e limite del Libero Arbitrio, ben espresso nel canto 68. La libertà di scegliere fra essere o Fuoco o Fulmine, fra il salire e lo scendere, e le due vie sono opposte e simmetriche (18-68). Ferme restando le pesanti ipoteche della Sorte e del Destino.

Un roveto di spine, il nostro vivere, e l’esaltazione della teologia non è terapia.

Due cose si convegnono a l’essenza

di questo sacrificio: l’una è quella

di che si fa; l’altr’è la convenenza.    45

Quest’ultima già mai non si cancella

se non servata; e intorno di lei

sì preciso di sopra si favella:           48

Non prendan li mortali il voto a ciancia;

siate fedeli, e a ciò far non bieci…    65

Se mala cupidigia altro vi grida,

uomini siate, e non pecore matte,

sì che ‘l Giudeo di voi tra voi non rida!   81

Non fate com’agnel che lascia il latte

de la sua madre, e semplice e lascivo

seco medesmo a suo piacer combatte!».  84

(72)

Due cose formano l’essenza di questo sacrificio (del voto): una è la cosa che viene offerta, l’altra è il patto tra uomo e Dio. Quest’ultimo non si può mai cancellare, se non viene rispettato; e di questo ti ho già parlato con precisione poc’anzi … Gli uomini non prendano il voto alla leggera; siate fedeli e non siate sconsiderati… o biechi truffaldini…

Se un desiderio malvagio vi suggerisce altro, siate uomini e non pecore matte, così che il Giudeo che vive tra voi non rida del vostro comportamento! Non fate come l’agnello sbandato, che lascia il latte della madre e, semplice e irrequieto, combatte da solo a suo danno!».

Qui si parla di CONTRATTI DIVINI, che molto spesso somigliano a quelli UMANI preferiti dai barattieri. E anche da tutti coloro che intendono il voto come fosse simile a merce di scambio: per esempio… se mi guarisci farò un regalo agli orfanelli…

Sarò molto chiara, perché c’è anche dell’altro: in occulto si tratta invece del patto che noi stringiamo con la nostra vita. E beffare Dio significa beffare noi stessi, come ben ci racconterà Guido da Montefeltro nel XXVII dell’Inferno.

E come bene ci riescono i diavoli a beffarsi da soli nel 22.

Al suono del comando di Malacoda, Virgilio e Dante camminano sotto scorta dei diavoli:

Noi andavam con li diece demoni.

Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa

coi santi, e in taverna coi ghiottoni.     15

Sferzata sarcastica per esorcizzare la paura, e fors’anche coltellata contro i ghiottoni che frequentano la chiesa!

Camminando lungo l’argine del pozzo di pece bollente, i due Poeti vedono Ciampolo di Navarra, barattiere tormentato dagli uncini dei diavoli. Che comincia a tramare una trappola per poter sfuggire al tormento.

Tra male gatte era venuto ’l sorco;

ma Barbariccia il chiuse con le braccia,

e disse: «State in là, mentr’io lo ’nforco».    60

E Libicocco «Troppo avem sofferto»,

disse; e preseli ’l braccio col runciglio,

sì che, stracciando, ne portò un lacerto.        72

Draghignazzo anco i volle dar di piglio

giuso a le gambe; onde ’l decurio loro

si volse intorno intorno con mal piglio.          75

«Se voi volete vedere o udire»,

ricominciò lo spaurato appresso

«Toschi o Lombardi, io ne farò venire;          99

ma stieno i Malebranche un poco in cesso,

sì ch’ei non teman de le lor vendette;

e io, seggendo in questo loco stesso,               102

per un ch’io son, ne farò venir sette

quand’io suffolerò, com’è nostro uso

di fare allor che fori alcun si mette».               105

Cagnazzo a cotal motto levò ’l muso,

crollando ’l capo, e disse: «Odi malizia

ch’elli ha pensata per gittarsi giuso!».            108

Ond’ei, ch’avea lacciuoli a gran divizia,

rispuose: «Malizioso son io troppo,

quand’io procuro a’ mia maggior trestizia».   111

Alichin non si tenne e, di rintoppo

a li altri, disse a lui: «Se tu ti cali,

io non ti verrò dietro di gualoppo,                  114

ma batterò sovra la pece l’ali.

Lascisi ’l collo, e sia la ripa scudo,

a veder se tu sol più di noi vali».                  117

(22)

 

Il topo era finito tra le grinfie di gatte malvagie; ma Barbariccia lo protesse con le braccia, dicendo: «State lontani, mentre lo infilzo». E Libicocco disse: «Abbiamo pazientato troppo»; e gli prese il braccio con l’uncino, cosicché gli portò via un brandello di carne. Anche Draghignazzo volle ferirlo alle gambe, ma il loro capo rivolse a tutti loro un’occhiata severa.

Poi il dannato, spaurito, ricominciò: «Se voi volete vedere o sentire toscani o lombardi, io li farò venire qui (altri sette barattieri); ma i Malebranche stiano un poco indietro, così che i dannati non temano le loro rappresaglie; e io, stando in questo punto in disparte, in cambio di uno solo come me, ne farò emergere sette fischiando, come siamo soliti fare quando qualcuno di noi affiora dalla pece».

A quelle parole Cagnazzo alzò il muso, scrollando la testa, e disse: «Senti che inganno ha escogitato per gettarsi sotto la pece!»

Allora il dannato, che conosceva ogni astuzia per imbrogliare, rispose: «Sarei davvero troppo furbo se procurassi ai miei compagni di pena nuovi tormenti». Alichino non si trattenne e di contro agli altri disse al dannato: «Se tu ti tufferai, non ti inseguirò a piedi ma volando sulla pece. Lasciategli il collo e ripariamoci dietro l’argine, così vedremo se tu da solo vali più di tutti noi».

O tu che leggi, udirai nuovo ludo:

ciascun da l’altra costa li occhi volse;

quel prima, ch’a ciò fare era più crudo.    120

Lo Navarrese ben suo tempo colse;

fermò le piante a terra, e in un punto

saltò e dal proposto lor si sciolse.              123

Di che ciascun di colpa fu compunto,

ma quei più che cagion fu del difetto;

però si mosse e gridò: «Tu se’ giunto!».    126

Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto

non potero avanzar: quelli andò sotto,

e quei drizzò volando suso il petto:             129

non altrimenti l’anitra di botto,

quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa,

ed ei ritorna sù crucciato e rotto.                  132

Irato Calcabrina de la buffa,

volando dietro li tenne, invaghito

che quei campasse per aver la zuffa;            135

e come ’l barattier fu disparito,

così volse li artigli al suo compagno,

e fu con lui sopra ’l fosso ghermito.              138

Ma l’altro fu bene sparvier grifagno

ad artigliar ben lui, e amendue

cadder nel mezzo del bogliente stagno.          141

Lo caldo sghermitor sùbito fue;

ma però di levarsi era neente,

sì avieno inviscate l’ali sue.                            144

Barbariccia, con li altri suoi dolente,

quattro ne fé volar da l’altra costa

con tutt’i raffi, e assai prestamente                 147

di qua, di là discesero a la posta;

porser li uncini verso li ’mpaniati,

ch’eran già cotti dentro da la crosta;

e noi lasciammo lor così ’mpacciati.           151

(22)

O lettore, adesso ascolterai una nuova farsa: ogni diavolo rivolse lo sguardo all’argine opposto, a cominciare da colui (Cagnazzo) che era più restio a fare questo. Il Navarrese (Ciampolo di Navarra, il barattiere) colse prontamente l’occasione; puntò i piedi sulla roccia e in un istante saltò e si divincolò dal loro capo (Barbariccia). Ognuno di loro si sentì colpevole della cosa, ma soprattutto quello che l’aveva provocata (Alichino); quindi si mosse e gridò al dannato: «Ti ho preso!» Ma non gli servì a molto, poiché le ali non furono più rapide della paura del barattiere: quello si immerse e il demone si impennò volando in alto e sollevando il petto: proprio come fa l’anitra di colpo, quando il falcone si avvicina e lei si tuffa in acqua, così che il rapace torna in alto stizzito e stanco. Calcabrina, infuriato per la beffa, lo inseguì volando e desiderò che il dannato scappasse per azzuffarsi col compagno; e

non appena il barattiere fu scomparso, rivolse gli artigli contro Alichino e lo ghermì proprio sopra il fossato. Ma l’altro fu pronto a difendersi come uno sparviero adulto e ad artigliarlo a sua volta, ed entrambi caddero in mezzo al bollente stagno di pece. Il caldo li fece subito dividere, ma sollevarsi in volo era impossibile, tanto avevano le ali imbrattate di pece. Barbariccia, avvilito insieme agli altri, ne fece volare quattro sull’altro argine con tutti gli uncini, e quelli scesero rapidamente da un lato e dall’altro nei punti loro assegnati; porsero gli uncini ai due compagni impegolati, che erano già cotti sotto la superficie vischiosa della pece; e noi li lasciammo lì in quell’impaccio.

Tradire noi stessi, come ben sapete, è l’unica colpa per la quale versiamo molte lacrime.

Intanto in paradiso si vola al Cielo di Mercurio.

Come ‘n peschiera ch’è tranquilla e pura

traggonsi i pesci a ciò che vien di fori

per modo che lo stimin lor pastura,          102

sì vid’io ben più di mille splendori

trarsi ver’ noi, e in ciascun s’udìa:

«Ecco chi crescerà li nostri amori».         105

(72)

Come in una peschiera calma e tersa i pesci si avvicinano al pelo dell’acqua, credendo che ciò che viene dall’esterno sia il loro cibo, così io vidi più di mille luci venire verso di noi e dentro ciascuna si sentiva: «Ecco chi accrescerà il nostro ardore di carità».

Immagine che ben si concorda con quella dei barattieri che sembravano nuotare nella pece come fanno i delfini, mostrando il dorso sopra la pece, per poi rituffarsi dentro. Ora qui si avvicinano gli Spiriti Attivi come pesci che salgono al pelo dell’acqua per trovare il loro cibo.

E arriva così lo spirito di Giustiniano Imperatore, che si avvolge dentro una luce splendente come il sole.

Sì come il sol che si cela elli stessi

per troppa luce, come ‘l caldo ha róse

le temperanze d’i vapori spessi,                 135

per più letizia sì mi si nascose

dentro al suo raggio la figura santa;

e così chiusa chiusa mi rispuose

nel modo che ‘l seguente canto canta.       139

 

Come il Sole che si nasconde alla vista per la troppa luce, non appena il calore ha dissolto gli spessi vapori che talvolta lo cingono e permettono di guardarlo, così la santa figura del beato si celò al mio sguardo per l’accresciuta letizia; e così, avvolta dalla luce, mi rispose nel modo che è descritto dal Canto seguente.

E continuerà la giullarata, nel canto più ipocrita che sia mai stato scritto!

Maria Castronovo

Pagina FB: https://www.facebook.com/maria.castronovo2?fref=ts
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http://www.antiguatau.it/aggiornamenti%204/pagine-varie/CASTRONOVO.htm

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